Lo strano infortunio del N.18

Cosa ricordo?

Che la prima volta volevo scappare.

Sì, scappare.

Come fa un gatto prima di morire, io volevo trovare un posto dove sentirmi sicuro e distante da quella brutta e strana sensazione che stavo provando.

Un derby è sempre un derby ovvio, e la tensione prima e durante la partita è normale che accompagni chi sta giocando, a me capita sempre di essere teso prima di una gara, figurarsi se poi si tratta di una stracittadina. Questa volta però è diverso, perché non sento la solita ansia mischiata a quella forte voglia di giocare, vincere e fare meglio dell’avversario, anzi nemico perché questo è uno scontro duro contro i rivali di sempre quelli più grandi, e nemmeno quella opposta che mi fa temere di prendere un gol, sbagliarne uno o peggio, di perdere. È qualcosa di nuovo che non capisco, che non trasforma la tensione in voglia di scendere in campo prima possibile, non mi spinge a dare tutto quello che posso, non mi dà energia ed entusiasmo ma mi blocca, mi spaventa, anzi più passa il tempo e più mi terrorizza.

È più o meno la metà del secondo tempo e da diversi minuti non riesco a fare molto in campo, mi sento distante, provo a scattare a seguire l’azione ma fatico a muovermi, non mi sento in forma ma, soprattutto, sono sempre più travolto da quello che mi sta succedendo.

Sto provando da quando è ripreso il gioco a stare calmo e a farlo passare ma qualcosa non va, e mi sembra che stia peggiorando. Non so cosa sia, ho solo paura, tanta mentre sento il battito del mio cuore che accelera e va sempre più veloce, troppo.

Il mister mi ha già richiamato un paio di volte, poi mi ha chiesto “tutto bene?”, ho detto di sì, pensavo sarebbe passata, ma non passa e non va bene, non va per niente bene.

Il mio compagno al mio ennesimo passaggio sbagliato mi ha mandato a quel paese, l’avversario che devo marcare si è reso conto che sto faticando e fa quello che vuole e io non ci sto capendo più nulla. Non ho più la forza di correre, mi sembra di fare uno sforzo incredibile ma senza riuscire a comandare il mio corpo, mi manca il fiato, ho male al petto e tanta nausea.

Mister, mi viene da vomitare, fammi uscire” è quello che riesco a dire mentre cerco di correre verso lo spogliatoio con le gambe che tremano. Il preparatore si è alzato dalla panchina per venirmi incontro e ora mi accompagna, nemmeno batto il cinque al mio compagno che sta entrando, devo scappare in fretta da qui. Cerco lo sguardo di mio padre nei gradoni lì vicino all’uscita del campo e lo vedo in movimento, ha già capito che qualcosa non funge e sta venendo da me.

Tranquillo, vai in bagno” mi dice il preparatore una volta arrivati dentro allo spogliatoio mentre non smetto di tossire appoggiandomi al lettino di plastica del fisioterapista mezzo rovinato da chissà quanti trattamenti, calci e sedute e rattoppato con pezzi di scotch da pacchi marrone che sta in mezzo alla stanza.

Il cuore scoppia. Lo sento. Non sono in grado di controllare il respiro e vorrei scappare da questa cosa che mi sta inseguendo da quando è iniziato il secondo tempo. Solo che adesso lo so cos’è. È la morte.

È ovvio che sto per morire e io non voglio morire in uno spogliatoio che puzza di fango, sapone e piscio.

Lasci, ci penso io.”

La voce di mio padre che libera il preparatore da questo impiccio e si prende cura di me, non mi tranquillizza ma mi fa piacere che arrivi ora alle mie orecchie, così non morirò tra le braccia di un mezzo sconosciuto. Ho vergogna a dirgli cosa sto provando, non voglio si spaventi ma non riesco a calmarmi.

Andiamo in ospedale, papà, portami in ospedale” gli dico piangendo. Respiro con la bocca in modo discontinuo e mi sembra che l’ossigeno che butto dentro non basti più, tremo e sono terrorizzato.

Stai tranquillo, calmati. Respira.”

Non ci riesco! Papà, ti prego andiamo in ospedale. Portami subito in ospedale.”

Metto la giacca della tuta e ancora con la divisa di gioco e le scarpe con i tacchetti addosso salgo in macchina, l’ospedale non è lontano magari riesco ad arrivare in tempo e possono provare a salvarmi.

Sono sul sedile reclinato del passeggero, Papà guida con una mano e con l’altra tiene la mia, mi dice di stare tranquillo ma lo vedo che è preoccupato, io la stringo con forza mentre continuo a non riuscire a coordinare il respiro e la mia testa è imbottita dei peggiori pensieri. Arrivati al pronto soccorso mi mettono su una sedia a rotelle e poi mi infilano un coso al dito e qualcosa sul petto. Vedo sul monitor un grafico, poi leggo il numero dei battiti che è enorme e sento soprattutto il bip frenetico che li segna.

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Non respiro bene e il cuore va a mille che cazzo succede?

Guardo impaurito papà mentre un dottore gli sta dicendo qualcosa, un’infermiera mi fa sdraiare sul lettino e misura la pressione intanto arriva veloce un’altra dottoressa con un carrello con sopra il macchinario per l’elettrocardiogramma. Chiudono le due porte, mi alzano la maglia, mettono gli elettrodi, intanto il bip frenetico mi perfora il cervello.

Mi sento esplodere.

Papà! Dov’è mio padre?” urlo cercando di scendere dal lettino strappando questi affari che ho appiccicati al corpo. Voglio mio padre, lo voglio vicino, adesso, mentre mi sembra che tutto stia crollando. Lui entra ma con lui ci sono anche altre persone con il camice bianco, mi devono tenere per farmi stare tranquillo.

Muoio, papà muoio!” ora devo dirglielo, anche lui deve sapere che è arrivata la mia fine.

No, no che non muori, stai tranquillo” mentre si mette al mio fianco e prova a farmi stare sdraiato “non ti agitare, ora ti passa.”

L’infermiera più anziana mi porta un bicchierino bianco alla bocca: “Prendi questo e calmati, ti stiamo aiutando. Non ti succederà nulla.”

Bevo questa roba dolciastra e provo a fidarmi, devo. Che altro posso fare?

La morte non arriva.

Hai avuto un attacco di panico. Capita anche ai ragazzi come te, troppo stress, troppa ansia, la scuola, il derby, e c’è pure una convocazione in nazionale mi hanno detto, vero? Succede che il tuo corpo e la tua mente vadano in tilt. A te è capitato oggi pomeriggio” Il medico che mi ha dimesso e che pure pare essersi informato sul mio curriculum calcistico, chiude così la questione che ha sconvolto le mie ultime otto ore.

Acqua e zucchero.

Nessuna medicina miracolosa nel bicchierino di plastica, solo un finto calmante per aiutarmi a riprendere il controllo, ora lo so. La morte non c’entrava nulla anche se da quel momento quell’idea non mi ha più abbandonato.

Forse era solo un piccolo avvertimento, una prova generale.

L’ho pensato e ancora adesso capita di sentire lo stesso pensiero che si avvicina. Uno dei tanti cattivi pensieri, che da quel giorno – ogni giorno e più volte al giorno – ha iniziato a farmi visita con insistenza e costanza, all’improvviso e per molto tempo, disturbando, sconvolgendo e segnando un pezzo della mia esistenza ma anche quella di chi mi sta attorno.

A quindici anni non posso essere pronto ad affrontare le ossessioni che senza alcun motivo e preavviso fanno capolino nella mia testa e provano a distruggere e stravolgere la mia vita.

E se mi succede ancora? Dove scappo? E che figura ci faccio?

Mi sono sforzato di fare finta di nulla, di riprendere la mia vita normalmente, l’ho fatto fin dal giorno successivo al primo blackout.

Oggi ho scuola e poi allenamento e voglio andarci.

La mattina non sono nemmeno riuscito a scendere dalla macchina immobilizzato dal terrore, dall’incapacità di reagire a questa paura e dalla vergogna a farmi vedere in questo stato dagli altri alunni della scuola.

Al campo invece sono riuscito ad andare, a trascinarmi a dire il vero, spinto dall’idea che il prato verde, i compagni e il pallone sono la mia ragione di vita fin da quando ho smesso di gattonare e ho iniziato a rincorrere una palla e il sogno di diventare un calciatore, e possono essere la mia distrazione e cura per questo “strano” momento. Invece no, il campo e il calcio, come la scuola, non sono un luogo sicuro dove tenere lontano i cattivi pensieri.

Fingendo di avere una brutta influenza con ricadute annesse, ho saltato allenamenti e partite per lo stesso motivo per cui non sono riuscito ad andare a scuola e a uscire con gli amici, perché questo malessere ha iniziato a presentarsi sempre più spesso e con maggiore frequenza durante il giorno. Ho passato giornate rannicchiato in un angolo della stanza per terra o nascosto da una coperta in una poltrona, ho trascorso interminabili minuti chiuso in un bagno della scuola mandando sms ai miei genitori spaventati perché lì c’era una finestra a portata di mano e poi perché nessuno è venuto a cercarmi a chiedere cosa stessi facendo, sempre ad attendere terrorizzato che gli incubi in cui ero intrappolato passassero. Quando stavo meglio però riuscivo a fare poco e male qualsiasi cosa, sempre distratto dal pensiero che presto o tardi sarebbe ricominciato tutto.

Non sono pronto io ma purtroppo ho capito che non lo è anche il mondo che mi circonda.

Scendiamo! Il mister ha detto che si cena alle 19.30.” Il mio compagno di stanza si gira verso il mio letto poggiando le cuffie sul comodino. Dorme da un’ora e io da almeno quaranta minuti sono tremante sul letto con la testa tra le ginocchia a fare i conti con la paura, a sforzarmi di stare meglio per non farmi vedere così da lui e da tutti gli altri.

Loro non devono sapere che sono così

Non scendo.”

Che c’è? Hai una faccia!”

Non scendo. Vai tu…”

Tutto ok? Stai tremando.”

No.”

Chiamo il mister.”

Vorrei dire di no, cacciare via tutto e scendere a mangiare ma è impossibile, questa volta non riuscirò a mentire, a camuffare quello che sta accadendo, se prima gli altri avevano dei dubbi, ora avranno la conferma che l’influenza non c’entra nulla, e che i miei problemi sono altri.

Che succede?” chiede il mister un po’ contrariato entrando in stanza. Di sicuro era già al tavolo ad aspettarci.

Voglio andare a casa.”

A casa? Perché a casa? Non stai bene?”

Non posso nascondermi ora, non ci riesco più, anche lui deve conoscere quello che succede. “Ho paura, mister. Chiama casa.”

Vorrei sparire all’istante ed evitare di aspettare ancora chissà quanto tempo l’arrivo dei miei genitori.

Saranno preoccupati e se finiscono fuori strada per venirmi a prendere? La colpa è mia.

Sensi di colpa, vergogna. Rabbia per non avere la forza di combattere questo aggressore sconosciuto che mi fa perdere il controllo. Adesso la sconfitta è perfino più grande perché non sono riuscito a trattenermi a fare resistenza, ora anche gli altri sanno e inizieranno a giudicare. Ho il tempo per pensarlo nel viaggio di ritorno, seduto vicino a mamma singhiozzando, chiedendo scusa e domandandomi se tutto questo passerà mai.

Non so come abbia spiegato ai miei compagni la mia partenza anticipata dal ritiro il mister, forse nemmeno lo ha fatto lasciando che le più svariate teorie da quel giorno iniziassero a correre di orecchio in orecchio tra i componenti della squadra. Di sicuro neanche lui l’ha capita e nemmeno si è sforzato di farlo nei mesi successivi quando ai suoi occhi sono diventato invisibile, relegato in panchina e in tribuna, poco considerato in allenamento, senza mai una sua parola o un incoraggiamento, che tanto aspettavo, mentre qualcuno all’interno della squadra mi chiamava “amichevolmente” svitato durante la partitella oppure quando toccava stare a me al centro nel “torello” e andavo in crisi quando i compagni – volontariamente o involontariamente – ne approfittavano facendomi girare come una trottola.

Queste sono le cose che mi tornano in mente, che faccio fatica a perdonare, ora che ho davanti questo foglio da firmare.

Vorrei dire al mio mister, ora che va meglio, che sono di nuovo visibile ai suoi occhi e che in campo gli servo come il pane perché ero, sono e resterò il migliore centrocampista che lui abbia mai avuto, che il suo sostegno mi avrebbe di certo aiutato, che avermi considerato e aver permesso anche agli altri di considerarmi come un malato non fa di lui un grande uomo, un adulto da rispettare e un valido allenatore di giovani calciatori. Vorrei che sapesse anche che se lui era impacciato, impreparato e aveva paura di fare i conti con un ragazzino in difficoltà come me, avrebbe dovuto immaginare e trovare la forza di provarci. Non so se sia fiato sprecato, se ne valga la pena, se ci rincontreremo, non porto rancore verso le persone del mondo del pallone che mi hanno evitato, emarginato, cancellato e poi sono tornati, ma non riesco a dimenticare che lo abbiano fatto. Vale per lui, per la società ma anche per il gruppo di procuratori che ho qui al mio fianco adesso – eh già, non uno ma sono ben tre i soci di questo studio – che mi segue e coccola fin da quando ho messo i piedi in nazionale. Tutti spariti dopo aver saputo da mio padre quale fosse la causa dei miei problemi, sono ricomparsi quando le cose sono tornate a funzionare meglio e ovviamente sono presenti ora che c’è questo foglio da firmare. Tre adulti, senza un minimo di sensibilità e senza alcun pudore che presto sapranno quanto schifo mi fanno.

Non è stato semplice affrontare questa situazione, conoscere il disturbo che ha deciso di tenermi compagnia per un po’ di tempo, i suoi segnali, e trovare le mosse giuste per prevenirlo e gestirlo perché so che rimarrà nascosto da qualche parte pronto a ricomparire. Nessun farmaco, solo ore a parlare con uno psicologo che prima ho rifiutato, poi odiato, piano piano accettato e che alla fine è diventato un punto fermo con i suoi consigli, nel mio percorso di riabilitazione, che non è certo il termine esatto ma rende l’idea. Non è stato semplice andare a scuola, recuperare le giornate e le lezioni perse, fare il borsone e andare al campo e poi ritornare sui libri con il timore di essere sempre sotto attacco.

Ho imparato a mie spese cosa significhi essere considerato diverso e per questo messo ai margini.

In aula ma anche in campo.

Ecco cosa ricordo dell’ultimo anno trascorso.

Proprio ora, una bella serata di giugno, mentre mi trovo in questo studio avvolto dai sorrisi delle persone che mi circondano e il sogno di diventare un calciatore professionista si sta avverando.

Sotto gli occhi un contratto.

Un contratto posato su una lussuosa scrivania in cristallo con una penna vicino che costa quanto il mio motorino.

Un contratto che non sono sicuro di voler firmare.

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